19 Luglio 2016

Retaggi antisemiti nella cultura della Chiesa

Fonte:

Moked.it

Autore:

Dario Calimani

…interrogativi

C’è qualcosa nell’articolo del Sole 24 Ore del cardinale Ravasi (di cui ho parlato la settimana scorsa) che continua ad agitare il mio sonno. Perché, mi sto chiedendo, un biblista preparato sceglie di citare la legge del taglione che schemi di lettura antiquati hanno sempre usato per esemplificare la rigidità e il materialismo crudele della legge ebraica?

Si ha l’amara sensazione che non siano sufficienti le mille amicizie ebraico-cristiane né gli incontri in sinagoga con tre Papi per riannodare sinceri rapporti di dialogo fra ebraismo e cristianesimo, fra gli ebrei e le cultura della Chiesa. Ci si chiede anzi se abbia alcun senso il dialogo interreligioso quando la lettura dell’ebraismo da parte di uno studioso come Ravasi continua a essere quella superficiale del pregiudizio antisemita. Non possiamo credere che Ravasi non conosca le interpretazioni rabbiniche – semplicissime spiegazioni – a Esodo 21:22-25, Levitico 24:17-22 e Deuteronomio 19:18-19, 21. Si potrebbe consigliare umilmente la lettura di qualche testo facilmente reperibile, tipo il commento alla Torah di Umberto Cassuto o l’edizione di Nahum Sarna, per una delucidazione convincente dei passi e della legge del taglione e dei contesti antropologici e culturali in cui quella legge è stata pensata e poi riapplicata e modificata. Ma ne parlano già esaurientemente i commentatori medievali, da Rashi (XI secolo) a Ramban (XIII secolo). Possibile che un biblista di vaglia non conosca gli studi di una cultura da cui deriva ‘necessariamente’ la sua stessa cultura? E se li conosce, perché non li mette a frutto quando scrive per il grande pubblico?

È una retorica fastidiosa porre domande a raffica di questo tipo, ne sono perfettamente consapevole. È vero tuttavia che certa scrittura e certe affermazioni fanno sorgere interrogativi che rimangono aperti come ferite che non cicatrizzano. Non consentono risposta.

Che cosa c’è, allora, nella cultura della Chiesa – forse dovrei dire ‘di certi alti rappresentanti della Chiesa’ – che non riesce a venire a patti con l’ebraismo? Qualsiasi risposta apre nuove ferite. Sembra infatti che il cristianesimo senta necessario confrontarsi senza posa con l’ebraismo per riaffermare una superiorità che è superamento di posizioni antiche. E ciò, nella contraddizione lancinante di una religione che nell’ebraismo non può non riconoscere le sue inestirpabili radici. Ma se nell’ebraismo il cristianesimo fonda il senso della sua esistenza (e non può non farlo), è nel superamento dell’ebraismo che il cristianesimo legittima la sua novità e il senso del proprio esistere come nuova rivelazione, separata. Un ossimoro sofferto, un’aporia senza uscita, che non può che produrre lacerazione della coscienza. Pericolose, naturalmente, sono le conseguenze di questa lacerazione interiore, di questa contraddizione quando cerca sfogo nella storia, come è successo nei secoli.

Il mio psicanalista personale dice che forse si tratta anche di vedere la critica all’ebraismo da parte del cristianesimo come irrinunciabile proiezione sull’altro di una critica che, per evidenti motivi di cronaca quotidiana, dovrebbe rivolgersi a certi comportamenti all’interno dello stesso mondo ecclesiastico. Ma mi piace considerare la lettura del mio psicanalista come derivante da deformazione professionale, perché, se avesse ragione, verrebbero meno i puntelli razionali per qualsiasi interpretazione del reale.