31 Gennaio 2018

Recensione della fiction televisiva Romanzo famigliare

Fonte:

Moked.it

Autore:

Asher Salah

Romanzo famigliare o il ritorno

dell’ebreo da feuilleton

Sugli schermi televisivi in Italia è abbastanza insolito vedere personaggi ebraici inseriti in un contesto che non riguardi le persecuzioni della seconda guerra mondiale. Infatti se già nel cinema si contano sulle dita della mano i lungometraggi fiction che fanno riferimento all’attuale esistenza di comunità ebraiche in Italia, gli ebrei nelle soap operas nostrane sono addirittura delle mosche bianche, ad eccezione di alcuni personaggi secondari come quel David Savona (Giacomo Piperno) della popolare serie Un medico in famiglia (1998-2011). La scelta della Rai 1 di esordire in prima serata, a partire dell’otto gennaio 2018, con una serie televisiva di dodici puntate incentrata sulle vicende di una famiglia ebraica nella Livorno di oggi è quindi di per sé un evento degno di nota, che sembra peraltro essere stato ricompensato da elevati indici d’ascolto, pari a quelli raccolti dal film, record di incassi 2016, Quo Vado? di Gennaro Nunziante, trasmesso nella stessa fascia oraria dal concorrente Canale 5.

Lo sceneggiato, ideato e diretto da Francesca Archibugi, ha per protagonisti i membri di tre generazioni di una dinastia ebraica livornese, i Liegi. La più giovane, la sedicenne Micòl (Fotinì Peluso), clarinettista di talento, è alle prese con una gravidanza precoce e con i problemi legati al trasferimento del padre Agostino Pagnotta (Guido Caprino), capitano di corvetta della marina italiana, da Roma all’accademia navale di Livorno. Queste circostanze portano Emma (Vittoria Puccini), la madre di Micòl, a fare i conti con il suo passato in una città da cui era fuggita da ragazza, ancora minorenne e in cinta di Micòl, e dove incombe la tentacolare presenza del suo genitore, il cavaliere Gian Pietro (Giancarlo Nannini), alla testa di un vasto impero finanziario ma ormai affetto da un incipiente Alzheimer, col quale i rapporti della figlia sono a dir poco turbolenti.

Non è la prima volta che Francesca Archibugi porta allo schermo personaggi ebraici. Già nel 2007 nel suo Lezioni di volo aveva descritto il viaggio di iniziazione e di scoperta identitaria di Apollonio Sermoneta, soprannominato “Pollo”, e del suo compagno detto “Curry”, due ragazzi romani di buona famiglia partiti per l’India. Come in Lezioni di volo anche in Romanzo famigliare la regista ha cercato di non attribuire all’identità ebraica dei suoi personaggi un qualsiasi statuto di eccezionalità, rendendo del tutto anodino e circostanziale, non sempre con successo, il fatto che essi appartengano o meno a una determinata comunità. In ogni caso, in Romanzo famigliare la condizione ebraica di alcuni protagonisti – tutto sommato piuttosto assimilati, sposati a non ebrei e amanti del buon prosciutto -, non sembra avere un gran peso nelle loro scelte esistenziali. Inoltre, la serie affronta con maggiore attenzione altre tematiche, ben più centrali nella cinematografia di Archibugi che non quella ebraica, come i rapporti di coppia, le tensioni intergenerazionali o i problemi legati all’adolescenza.

E’ da segnalare comunque come un fatto positivo che gli ebrei vengano rappresentanti come persone dotate di vizi e virtù alla stregua di ogni altro essere umano. Pertanto, il fatto che il personaggio di Gian Pietro Liegi sia caratterizzato da tratti a dir poco negativi – rapace, manipolatore, autoritario – non va necessariamente considerato come l’espressione di un pregiudizio nei confronti degli ebrei in quanto collettività, ma sembra a prima vista essere soltanto un elemento della sua difficile personalità, tanto più che la sua figura appare controbilanciata dalla presenza di altri personaggi ebraici, Emma e Micòl, con la cui umanità è più facile identificarsi.

Da questo punto di vista il lavoro dell’Archibugi non si distingue dal modo in cui il cinema internazionale degli ultimi anni ha affrontato la caratterizzazione di ebrei “canaglie”, come il falsario Salomon Sorowitsch nel film The Counterfeiters di Stefan Ruzowitzky, del 2007, i fratelli Bielski in Defiance di Edward Zwick del 2008 o ancora la squadra di ebrei in un’immaginaria missione militare per uccidere il Führer a Parigi in Inglorious Basterds di Quentin Tarentino del 2009, film peraltro che concorreva per l’audience su Italia 1 con la mandata in onda del primo episodio di Romanzo famigliare. Alla loro uscita la critica aveva generalmente salutato questi film per avere rotto con una tradizione cinematografica in cui l’ebreo era prevalentemente presentato nella sua condizione di vittima sacrificale e quindi come personaggio passivo e privo di una propria autonomia morale, condannato a essere oggetto quintessenziale di pietà o di obbrobrio, a seconda dell’atteggiamento anti o filo-semita dell’autore.

Tuttavia se la volontà da parte dell’Archibugi di “normalizzare” la rappresentazione degli ebrei sullo schermo è indubbiamente lodevole, inserendo le loro vicissitudini come parte integrante di una Livorno al tempo stesso provinciale e multietnica, proletaria e borghese, resta la domanda se sia possibile condurre una tale operazione senza fare i conti con l’incidenza degli stereotipi ancora correnti nella cultura popolare riguardanti l’ebraismo. La questione emerge in tutta la sua problematicità nella scelta di attribuire ai suoi personaggi ebraici quelle caratteristiche a cui ancora si associa pregiudizialmente il nome di ebreo, cioè la ricchezza, l’avidità di potere e il sentimento di una distante superiorità.

La dinastia dei Liegi, ancorché confrontata con una difficile congiuntura economica, è infatti estremamente facoltosa, proprietaria di una holding che controlla decine di società internazionali impegnate in settori che vanno dai cantieri navali all’alta finanza. Ma è al petrolio e in particolare alla paraffina che si deve il successo dell’impresa familiare costruita sotto il fascismo e in stretta collaborazione col regime, almeno sino alle leggi razziali, come sottolinea Gian Carlo in una rivelazione alla figlia Emma nel settimo episodio, e il cui marchio “Lucifero”, rappresentato da un diavoletto rampante su delle fiammelle, troneggia incorniciato nei saloni di villa Liegi. Il carattere satanico del vecchio Liegi appare ulteriormente rafforzato dall’immenso pitone che egli tiene in ufficio e a cui è immensamente affezionato. Il serpente, di nome Mosè, stritola e ingoia quotidianamente piccoli topini con una freddezza e un’indifferenza che sono l’immagine speculare di quelle del cavaliere. Infine sul piano dell’enunciazione visiva non può non turbare la messa in scena, nella sala di ricevimento di villa Liegi, di una Menorah, davanti a un libro di preghiera di rito sefardita “Ish Matzliach” (Uomo di successo), posta proprio sotto il quadro di Lucifero e accanto a una statuetta di un grande vitello, quasi a simboleggiare il culto dell’oro del suo proprietario.

Per Gian Carlo tutto si compra con il denaro, prevaricando senza scrupoli la deontologia professionale di medici, avvocati e autorità statali. La prepotenza e l’aridità sentimentale del magnate sono il risultato di questa sua gretta filosofia, che non indietreggia davanti ad alcuna truffa, menzogna e tradimento. La sceneggiatura di Romanzo famigliare sottolinea ripetutamente l’incolmabile diversità tra il mondo dei Liegi e quello degli altri personaggi non ebrei. Agostino nel sesto episodio si sfoga con la sua amante, nel corso di un’occasionale avventura extraconiugale, sentenziando sui Liegi che “si sentono di una razza superiore”, sentimento ribadito dallo stesso Gian Pietro quando in un altro episodio afferma seccamente “noi siamo diversi”, rifiutando così la solidarietà del genero, che per la prima volta afferma di potersi immedesimare nella sofferenza dell’odiato suocero, dovendo confrontarsi a sua volta a distanza di vent’anni con la gravidanza precoce di una figlia minorenne.

Che queste qualità non siano solo l’appannaggio del particolare temperamento spocchioso di Gian Carlo ma costituiscano una vera e propria tara familiare emerge in modo paradigmatico nel rapporto conflittuale con la figlia. La tragedia della nevrotica Emma deriva infatti dalla consapevolezza di subire il condizionamento del sangue – il marito le rinfaccia spesso di “essere sempre e comunque una Liegi” – nonostante tutti gli sforzi da lei investiti per tagliare ogni ponte coll’universo isolato e corrotto del padre. Emma si trova al crocicchio di due mondi diametralmente opposti e incompatibili l’uno con l’altro: quello della vita, della riproduzione e di una sessualità disinibita, rappresentato da Micòl, cresciuta nell’ignoranza della proprie origini ebraiche, e quello della morte proprio del chiuso e asfittico circolo familiare dei Liegi, segnato dalla precoce scomparsa per una leucemia della madre di Emma, Micòl Chayes, e manifesto nella progressiva demenza del vecchio Gian Pietro e nella degenerazione psichica di Jacopo, figlio parassita e cocainomane. Non a caso l’unico spazio dove Emma si trova confrontata alle proprie origini è il cimitero ebraico di Livorno, dove sono riprese alcune delle pochissime immagini a forte connotazione ebraica di tutta la serie. Solo con la morte del patriarca, rimasto intrappolato in un congelatore – luogo che gli riporta alla mente ormai offuscata il ricordo della fuga in Svizzera durante la guerra -, e quindi simbolicamente solo con l’obliterazione della memoria traumatica, i suoi discendenti riescono a liberarsi dall’ingombrante legato familiare. Emma scopre allora di essere in cinta e Micòl può finalmente partorire.

Ci si può peraltro domandare sino a che punto la stessa Micòl, ebrea per metà, riesca ad eludere completamente il legame atavico del sangue. Non solo la sua generosa e tollerante ginecologa, impersonata da Anna Galiena, ricorda alla sua giovane paziente che “il patrimonio genetico conta ben più di quello immobiliare”, frase che ritorna come un leitmotiv in varie altre circostanze, ma l’ingenuo entusiasmo di Micòl, scoprendo il proprio retaggio ebraico in casa Liegi si accompagna immediatamente all’introiezione di atteggiamenti di comando e di sopruso nei confronti dei collaboratori del nonno, primo fra tutti il factotum e custode dei segreti di famiglia, Vanni (Marco Messeri).

La rappresentazione della villa Liegi, circondata da altissime mura e protetta da invalicabili cancelli, come metafora di un universo stantio e ripiegato su se stesso, ha il suo più riconoscibile antecedente nel Giardino dei Finzi Contini di Vittorio De Sica del 1970, ispirato all’omonimo romanzo di Giorgio Bassani, e innesca inevitabili reminiscenze cinematografiche anche con la sinistra proprietà dei Luzzatti a Volterra nel film di Luchino Visconti, Le Vaghe stelle dell’orsa, del 1965, dimora dove si consuma l’incestuoso amore tra i due figli del professore ebreo deportato e ucciso ad Auschwitz.

I larvati pregiudizi di stampo antisemita della piccola borghesia provinciale di Livorno sono certo rintuzzati da una risentita Emma, che fino ad allora aveva cercato di cancellare i suoi natali adoperando solo il cognome Pagnotta del marito meridionale, nel corso di una cena in cui i commensali fanno dei commenti denigratori sugli ebrei. Questa è la prima e l’unica volta in cui Emma rivendica l’appartenenza a una casta di banchieri sefarditi istallati a Livorno fin dal Cinquecento (anche se contrariamente a quanto appare nel dialogo le livornine non furono promulgate da Cosimo I de Medici nel 1548 bensì dal figlio Ferdinando nel 1591). Inoltre numerosi sono i rimandi intertestuali nella serie televisiva ad opere di autori ebrei della letteratura italiana del Novecento, da Natalia Ginzburg, a cui si riprende la particolare grafia dell’aggettivo con la g del titolo Lessico famigliare, sino alla scelta dei nomi dei personaggi, come quello di Micòl di bassaniana memoria o il cognome Liegi, ispirato all’anagramma, Ulvi Liegi (1858-1939), usato dal pittore livornese Luigi Levi per firmare i suoi quadri. Ma questo non basta per rendere del tutto credibile la caratterizzazione dei suoi personaggi ebraici.

Nelle interviste promozionali di Romanzo famigliare, Francesca Archibugi ha insistito sul suo desiderio di rifarsi alla grande tradizione del feuilleton ottocentesco italiano. La serie RAI da lei diretta attinge effettivamente a piene mani al repertorio di immagini e di situazioni di questo genere letterario, sfruttandone con talento i pregi melodrammatici. Tuttavia è un peccato che accanto alla rivalutazione dell’importanza culturale del feuilleton, in Romanzo famigliare si recuperi con scarsa sensibilità critica anche una certa deleteria stereotipia dell’ebreo plutocrate, avido e calcolatore, veicolata per l’appunto nei romanzi d’appendice di una Carolina Invernizio o di un abate Bresciani e che sarebbe invece giunta l’ora di lasciarsi definitivamente alle spalle.