6 Settembre 2016

Nostalgia come sentimento fondamentale della destra politica

Fonte:

Il Foglio

Autore:

Adriano Sofri

E’ la nostalgia a spiegare la radicalizzazione dell’Europa di oggi

C’è una categoria essenziale per chi voglia capire la radicalizzazione xenofoba dell’Europa e, reciprocamente, la radicalizzazione identitaria di migranti extraeuropei in Europa. E’ la nostalgia. E’ fin troppo scontato che la nostalgia sia un sentimento fondamentale della destra politica, e specialmente dell’estrema destra, caratterizzata da un lutto antimoderno e dalla paura che persone straniere ed estranee profanino, deridano e devastino l’eredità del passato. Questa nostalgia ha un rapporto stretto con la devozione alla natura, alla sua lunga durata e alla sua vagheggiata purezza, e attraversa cosi il ruralismo reazionario come una vasta corrente ecologista. Si sa che lo stesso neologismo di “nostalgia” fece ingresso nel 1688 a nominare la vera e propria malattia che colpiva e faceva cantare i soldati svizzeri troppo a lungo lontani dalla propria casa e dai propri posti. Prima di allora, nella Guerra dei trent’anni una malinconica patologia analoga dei soldati spagnoli veniva chiamata “el mal de corazòn”. In Italia l’età immediatamente successiva al fascismo regalò a chi gli restava legato l’epiteto di “nostalgici”, ridotto a un’accezione miseramente politica. E non è un caso che nelle formazioni demagogiche di estrema destra che si vanno gonfiando in Europa l’ingrediente della nostalgia politica più ottusa e scandalosa, fino all’esplicito neonazismo e al culto di uniformi e gesti, sia così vistoso. Tuttavia il problema con la nostalgia è molto più grosso e coinvolgente che non la sua relegazione a sinonimo di neofascismo. La nostalgia è un sentimento nobile e universale. Oggi, riempire quel sentimento col richiamo a un passato politicamente compromesso e spesso infame è un errore consolante e velleitario. La nostalgia tiene il campo non per il rimpianto di un mondo perduto, reale o immaginario, ma per la paura incombente di un presente minacciato di perdersi. E’ questo a spiegare il successo della cristallizzazione elettorale della nostalgia in luoghi simbolici della tradizione e insieme radi di stranieri: una proiezione dell’antisemitismo senza ebrei, che riesce a essere così fremente. Oggi si ha nostalgia non del mondo di ieri perduto e illusoriamente richiamato ma del mondo presente che si sente insidiato e minacciato e comunque votato alla fine. I migranti, in carne e ossa o nel fantasma, incarnano il nemico che la globalizzazione altrimenti dissolve in una nuvola losca e anonima. Paradossale se non ridicolo com’è, il migrante più disgraziato e spogliato passa per un emissario della finanza sovranazionale. Per questo i protocolli antisemiti servono ancora così bene alla bisogna. La nostalgia, l’attaccamento ai luoghi e alla storia, alle date incise sui monumenti e sui portoni delle case, sa anche sfuggire al ricatto della xenofobia e della chiusura, ma fa fatica. Sente che la minaccia è vera, sceglie di non cederle anteponendole il valore prevalente della fraternità umana e dell’accoglienza, non di rado tenta di anestetizzare la propria ferita persuadendosi della colpa antica e attuale della propria parte di mondo e del proprio modo di vivere nella tragedia delle vittime di oggi. Si rassegna a passare sopra, se non a vergognarsi delle date scolpite sulle proprie cattedrali e sui portoni delle proprie case. Oppure sente il cuore spezzato fra l’attaccamento alla lunga eredità di cose e di affetti e il ripudio inumano del prossimo che gli ingombra la strada. Una sottile frontiera psicologica separa le avanguardie della nostalgia mutata in cattiveria e aggressione, che supera il ventuno per cento elettorale nel Meclemburgo, e sfiora o prende la maggioranza altrove, da un vasto e vario centro renitente all’aggressività e all’odio, ma sensibile alla paura e al dolore per la perdita, alla nostalgia grata agli antenati e premurosa coi figli. Questa è solo una faccia del dilemma. La nostalgia colora infatti anche il destino dei nuovi arrivati. Siamo abituati alla distinzione, spesso un rovesciamento, fra le prime generazioni e le successive. Impegnate, le prime, a farsi accettare e dunque ad accettare con docilità se non con entusiasmo il nuovo mondo cui sono arrivate. Inclini, le seconde e le terze, a ripudiare la mezza integrazione ricevuta in concessione e a cercarsi radici alternative, secondo l’offerta del mercato delle identità dei bigottismi e del senso della vita. Anche i più convinti fautori e collaboratori dell’integrazione, anche quelli che confidano nella ricchezza promossa dall’incontro e dalla mescolanza, non possono aspettarsi che siano i nuovi arrivati a difendere un retaggio di memorie e tradizioni che la velocità prepotente del mondo globale distrattamente spazza via. L’amore per Amatrice che fa dire a tanti svaligiati di non voler abbandonare quelle pietre, magari contro la ragionevolezza; mentre un uomo afghano è venuto a piangere su quelle pietre in cui è sepolto il suo giovane fratello, che non aveva più il suo paese, e non ne aveva ancora un altro, morto in una terra di nessuno, morto nessuno in terra d’altri. Anche i nuovi arrivati delle guerre, delle persecuzioni e delle carestie che oggi fanno saltare i nervi d’Europa saranno disposti, nonostante i muri, i fili spinati, gli sgambetti, le botte, le minacce, le derisioni, le umiliazioni, anche questi nuovi arrivati si affanneranno a mostrarsi grati, a imparare a somigliare ai loro ospiti, a cantare con più fervore gli inni nazionali. Molti l’hanno già fatto quando ancora erano a casa e avevano una casa, indossando magliette delle squadre di Barcellona e di Monaco, e continueranno a farlo una volta arrivati davvero a Monaco o Barcellona. Si può diventare presto romanisti o ferraristi, altra cosa è visitar chiese come chi vi ha camminato da bambino come a casa propria, leggere la storia sulle mura di un palazzo comunale, avvertire un’eco dantesca nella loquela di un venditore ambulante. I nuovi arrivati, alla seconda e alla terza generazione — già alla generazione dei bambini che partoriscono nelle stive dei barconi, che si portano in braccio dalla Macedonia alla Serbia all’Ungheria al Brennero – saranno invasi dalla nostalgia di luoghi e case e lingue e costumi che hanno perduto violentemente, da cui sono stati espulsi e braccati, che erano la terra promessa loro prima del massacro e della cacciata. Impareranno forse la storia del Rinascimento fiorentino e dell’Illuminismo parigino e delle libertà degli svizzeri, ma conosceranno certo nei dettagli il rifiuto e la paura che l’Europa oppose al loro rifugio, i partiti che se ne impadronirono e ne dissolsero l’unione, i dirigenti provvisori che vollero comprare in soldi la loro estromissione. Avranno nostalgia del proprio mondo perduto, non solo per dare un fondamento e un mito alla propria rivalsa, ma perché negli umani, come negli altri animali, resta una memoria dei luoghi, del vento che vi soffia, dell’aria che vi si respira, di suoni e canzoni. Due nostalgie crescono e si fanno prepotenti nell’Europa di oggi, e si contrappongono fino ad aggredirsi ed escludersi, confiscando e svuotando la nostalgia comune per la terra cui tutti apparteniamo e che da tutti e per tutti è minacciata. Divisi dalle nostre nostalgie, le stiamo rendendo opposte e nemiche, e ci ammazzeremo a vicenda in loro nome. Se sapessimo fraternizzare in nome della nostalgia comune per la terra minacciata, per la nostalgia del futuro che è la vera terra promessa e rubata delle generazioni cui affidiamo il senso del nostro passaggio, diventeremmo un buon partito.