1 Agosto 2016

Mercante di Venezia in scena nell’antico Ghetto di Venezia

Fonte:

Moked.it

Autore:

Dario Calimani

Shylock in Ghetto

Ne ha parlato il mondo intero di questo Mercante di Venezia in scena nel Ghetto della città lagunare. L’attesa è stata vibrante. Ad assistere alla sua rappresentazione sono venuti da ogni dove, e lo spettacolo non ha certo deluso. Vedere Shylock calcare i ‘masegni’ del Campo di Ghetto è stato un colpo d’occhio, e un’emozione che resterà dentro nel tempo, al di là di qualsiasi effetto la messa in scena abbia prodotto o abbia mancato di produrre. Ad accompagnare lo spettacolo, il frinire assordante e superfluo delle cicale, ma anche il complesso di concertisti che bene richiamavano le sinergie artistiche del teatro elisabettiano.

Certo, Shakespeare non dà segno di aver saputo che il Ghetto esistesse, né che i prestatori ebrei operassero lì e non a Rialto, e non sapeva del resto che il Doge non svolgeva attività di giudice e che un imputato o un avvocato non potevano assumere il ruolo di pubblici accusatori e giudici a loro volta. Il Mercante è una finzione, ed è bene continuare a ricordarlo, ma è una finzione che qualche recondito messaggio vuole veicolarlo, per quanto ambiguo, per quanto contraddittorio, per quanto enigmatico. E la messa in scena di Karin Coonrod, puntata sullo spettacolo, sulla commedia, sui costumi sobri ma eleganti, forse qualche cosa ha mancato di trasmetterlo. Una splendida occasione in fondo, ma un’occasione mancata. Il pubblico si è certamente divertito alle molte occasioni esteriori, alla vivace interpretazione del buffone, Lancillotto Gobbo; il critico, per parte sua, ha sofferto non poco per la mancata messa a fuoco degli interrogativi centrali. Ma, si sa, la critica è noiosa e il suo mestiere è di essere pedante.

Che il colpo d’occhio e l’effetto spettacolare della location potessero far passare in secondo piano i contenuti sottesi del testo era un rischio che si poteva immaginare di dover affrontare. Il fascino del Ghetto ha infatti condizionato la rappresentazione sin dal ridondante esordio ruzantiano, utile ad accentuare il contesto, ma decisamente deviante in relazione al testo. Molti degli effetti ricercati sono sembrati ad uso del turista più che tesi a scandagliare le profondità del dramma. A lasciare perplessi sono state certe scelte della regia. Un Antonio, ad esempio, cinico e sprezzante sin dall’inizio (per rendercelo antipatico?), di cui è rimasto peraltro annullato il riferimento all’ambiguo rapporto omoerotico con l’amico Bassanio (omesso dalla messinscena un patetico addio fra i due). Ma omessa anche una battuta chiave dell’infedele figlia Jessica che, mentre fugge con i preziosi rubati al padre, si attarda a rifornirsi di altri ducati con cui ‘agghindare’ il suo tradimento, oltre che il suo senso di colpa. Semplificazioni che non hanno fatto bene al dramma nel suo insieme, mentre, per una sua necessaria riduzione a tempi sopportabili, si potevano sacrificare altre scene di minor rilievo significante. È sempre questione di scelte, ma ogni scelta ha il suo motivo e propone una sua ideologia.

Originale l’idea di frammentare il personaggio di Shylock facendolo impersonare da cinque diversi attori, per metterne in risalto la complessità, secondo quanto riferisce la stampa. Se però un mio studente mi interrogasse su quali siano i cinque diversi aspetti del carattere di Shylock, devo confessare che non saprei che cosa rispondere. Nella mia non breve frequentazione del testo ne ho riconosciuti con certezza due, lo Shylock rancoroso e vendicativo e lo Shylock che, dopo aver rivendicato la sua umanità, viene disumanamente sconfitto e cancellato, convertito. Una scelta di sicuro effetto quella dei cinque Shylock sotto l’albero del Ghetto, ma di ben ardua ricezione da parte di un pubblico quanto meno ‘generalista’. E non si può dimenticare che il dovere di una regia, pur nella sua relativa libertà interpretativa, è quello di rendere il dramma fruibile in modo immediato e diretto.

Che la figura di Shylock costituisca un dilemma testuale è risultato chiaro anche dall’imbarazzo con cui è stata risolta la sua resa ‘corporea’: da un lato la ‘r’ calcata e rotolante, una caricatura dell’ebreo ashkenazita, dall’altro l’elegante veste con fasciatura dorata ai fianchi, e la conseguente rinuncia all’ovvia e testuale ‘gabbana d’ebreo’ nera. Solo di fronte a questa evidente differenza d’abito si sarebbe colta tutta l’ironia di una Porzia che chiede ‘Chi è il mercante qui? E chi l’ebreo?’, fingendo un’equidistanza fra mercante cristiano e usuraio ebreo che avrebbe offerto un assaggio della sua strategia di simulazione. Con cinque Shylock eleganti, invece, l’ironia svanisce, e con essa svanisce per il pubblico ogni possibilità di cogliere una Porzia la cui palese essenza è quella del travestimento, della mimetizzazione, della dissimulazione e del raggiro.

Si ha la sensazione, nel complesso, che il testo sia stato vagamente eufemizzato, forse anche un po’ de-ebraizzato, certi significati passati sotto silenzio. Non emerge l’interesse fortemente economico della società veneziana e cristiana che, ben più di Shylock, non riesce a dissociare l’amore dal denaro. Non si coglie il fatto che Antonio, nel prestare denaro a Bassanio, sta di fatto esercitando un’usura emotiva, perché lega così a sé l’amico/amato con un debito materiale e morale insieme. Sottigliezze, fra le molte, che costruiscono però tutto il senso complesso e multivalente di questo problematicissimo dramma shakespeariano.

Deviante e blasfema, sul piano culturale, è poi la scritta che si proietta sulle case del Ghetto alla fine della rappresentazione: “Misericordia”, come se questo fosse il significato e l’invito che il pubblico deve portare a casa con sé. E si giunge invece, così, alla deformazione del testo, perché la misericordia è, per la società cristiana di Venezia, un ideale mancato. Tanto mancato quanto lo è la giustizia che la società nega a Shylock. È incontestabile, infatti, che la misericordia proclamata solennemente da Porzia in uno splendido monologo è solo ciò che si pretende da Shylock: la pietà che lo costringa a rinunciare alla sua giustizia e al denaro che ha prestato al cristiano. Ma quando toccherà a Porzia (e ad Antonio) dimostrare quanto sia spontanea la sua misericordia, Porzia dimentica le belle parole che ha pronunciato e dimentica la sua stessa fede, e infierisce su Shylock facendogli pagare il suo inflessibile rancore con l’espropriazione: denaro, come sempre, che passa dall’ebreo al cristiano. La misericordia cristiana, nel testo, non esiste. Esiste invece la vendetta, come aveva lamentato e predetto l’ebreo Shylock.

Buffa coincidenza, poi, che sulla misericordia cristiana stia insistendo in questo periodo anche il cardinale Ravasi, per opporla all’inflessibilità della legge ebraica. Un curioso malinteso, naturalmente, visto che l’ebraismo conosce bene la ‘Middat haRachamim’, l’attributo della misericordia divina. Non sia mai allora che, nel suo monologo sulla misericordia, Porzia stia citando la Torah? E se Porzia fosse una marrana? Ma questa è davvero un’altra incredibile storia.

Perché, dunque, proiettare ‘Misericordia’ sulle pareti del Ghetto? Forse per dire che questo è il messaggio finale da ricavare e il sentimento da riprodurre nell’oggi, amando il diverso, comunque si chiami, dovunque si trovi. Un messaggio universale che trascende l’ebraicità del personaggio Shylock e vede in lui, più che l’ebreo, il diverso tout court. A cui si può rispondere: diverso, certo, ma ebreo, e proprio in quanto ebreo oggetto per secoli del trattamento che ben si conosce, un trattamento riservato a lui in particolare. Shakespeare è sì un animo aperto, ma è nella figura dell’ebreo che mette a fuoco l’accanimento, le vessazioni e le manipolazioni della società contro l’estraneo. Trascendere la lettera alla ricerca di metafore e di simboli e di estrapolazioni universalizzanti non significa sminuire, eufemizzare o annullare i significati di partenza, quelli intrinseci e ineludibili del testo. E, soprattutto, visto che nel dramma la società ha la meglio e l’ebreo ne esce sconfitto, il messaggio della misericordia finisce per ridurre ai minimi termini la complessità del testo e dei suoi significati, per segnare il trionfo di quella società e dei suoi valori. La misericordia (cristiana) prevale a patto che l’estraneo venga cancellato e omologato alla società dominante; da questa conseguenza necessaria qualche significato bisognerà pur ricavarlo. Che la misericordia prevalga è, in effetti, solo un significato apparente e ingannevole del dramma. Ma con un messaggio così l’ebreo – quello fuori scena – un risultato lo ottiene, perché si accattiva la simpatia del mondo, universalizzando la propria esistenza, rappresentando gli altri anziché se stesso, fondendosi con gli altri, annullando (superando?) i valori della propria identità. E dalla rappresentazione si esce allora pacificati, soddisfatti, per nulla disorientati e scombussolati. Come, cioè, se il testo non fosse quel contrasto di significati irreconciliabili che è. La regia di Karin Coonrod ha cercato invece una soluzione univoca, e l’ha trovata in un finale corale, facendo ripetere, a più voci da tutti gli attori, il monologo più fastidioso, indispettito e indispettente di Shylock. Tanto il pubblico non ha capito, o forse neppure se n’è accorto. Scenografia allo stato puro.

La regia ha il diritto di essere libera, ma ha il dovere di rispettare la scrittura. Un compromesso difficile da realizzare, e tuttavia ci si poteva provare. Ma è ormai una moda che la rappresentazione stessa del Ghetto sia solo metafora, che trascende la realtà e la presenta per quello che non è stata. Il futuro ha sostituito il passato e ne sta deformando terribilmente la storia. Allo stesso modo, con i giusti tagli e le opportune aggiunte, al testo si sostituisce l’interpretazione facendogli dire ciò che più conviene.

Questa è la strada scelta da quanto si sta svolgendo nel Ghetto di Venezia. Così lo spirito dello spettacolo globale si è impadronito anche del Mercante di Venezia. Ci voleva poi la riproposizione di un processo fittizio, con grandi personalità del diritto convocate all’uopo, per spettacolarizzare anche i non significati del Mercante, ciò che il testo, cioè, non ha mai voluto dire. E così si scopre che il contratto fra Antonio e Shylock non è valido, e che non è valida la sua conversione e via dicendo. Anche qui, spettacolarizzazione turistica allo stato puro, che lascia l’amaro in bocca, non solo per il cultore del testo shakespeariano, che vede in queste pseudo-scoperte giuridiche delle travisanti banalità, che con la finzione del testo non hanno nulla a che fare, ma anche per l’ebreo veneziano, che vorrebbe forse che la sua storia e la sua cultura non fossero trattate come una farsa da baraccone, da deformare e stazzonare a volontà. A deformare la realtà storica basta Shakespeare, che almeno stava cercando di dire qualcosa di serio agli uomini del suo tempo, dall’alto della sua inconsapevole grandezza.