30 Aprile 2016

Intervista con il professor David Meghnagi sul prossimo film di Spielberg dedicato al “caso Mortara”

Fonte:

Il Foglio

Autore:

Daniel Mosseri

Così la parabola del piccolo Mortara ha finito per stregare Spielberg

Berlino. Un bambino ebreo in fasce battezzato di nascosto dalla domestica cattolica e strappato per questo motivo sei anni dopo all’affetto dei genitori. La drammatica storia si svolge a Bologna, Stato Pontificio, nel 1858. Nonostante le proteste dei suoi cari e di parte della comunità internazionale, Papa Pio IX non restituirà il piccolo Edgardo Mortara ai suoi affetti. Questa è storia e Papa Giovanni Maria Mastai Ferretti è stato beatificato nel 2000 fra le proteste di chi ricordava la sua responsabilità nella vicenda. La novità, invece, è che il regista Steven Spielberg ha annunciato di voler trasformare il caso Mortara in un film. Il Foglio ne parla con David Meghnagi, docente di Psicologia Clinica all’Università Roma Tre. Nato da famiglia ebraica a Tripoli nel 1949, Meghnagi ha studiato clinicamente il profilo psicologico di Mortara. Il professore definisce il suo caso “l’emblema della situazione in cui vivevano gli ebrei italiani”. Emancipati dai Savoia ma non dallo Stato Pontificio, gli ebrei diventano la cartina di tornasole del cambiamento: “La Chiesa ne fa l’emblema stesso della modernità e su di loro dirotta la propria ostilità per il nuovo e per l’emancipazione”. Traumatizzati, i Mortara chiesero l’aiuto degli ebrei romani, e questi di quelli torinesi, che a loro volta si rivolsero all’estero. Anche il filantropo britannico Moses Montefiore si recherà a Roma, ma il Papa non lo riceverà. L’ebraismo europeo, ricorda Meghnagi, reagirà organizzandosi nell’Alliance israélite universelle: “Si dimostra così che il mito ‘dell’internazionale ebraica’ è un’invenzione degli antisemiti: usciti dai ghetti, gli ebrei reagiscono all’antisemitismo che nei ghetti li vorrebbe ricacciare”. Severe, secondo il fondatore del Master in Didattica della Shoah, le conseguenze per l’immagine della Chiesa di allora, il cui prestigio declinò sia nella Francia di Napoleone III sia in Gran Bretagna, dove il Times pubblicherà 20 articoli sul caso. Non andò meglio, secondo lo studioso, neppure all’interno di una Curia chiusa a riccio: “Questo bambino rapito in età precoce diventa il figlio del Papa e viene traumatizzato al punto che per non impazzire finisce per identificarsi con l’aggressore”. Esperto di traumi intergenerazionali, Meghnagi si è concentrato sulle conseguenze psicologiche del rapimento. Nell’ottobre del 1858, a seguito di pressioni internazionali, ai familiari fu permesso di vedere Edgardo una sola volta. Questi dirà alla madre che la sera recita ancora lo Shema Israel, l’atto di fede pronunciato dagli ebrei prima di coricarsi. “Parole che dimostrano la sua volontà di non spezzare il legame con il proprio passato e con la propria famiglia. Più avanti questo legame si trasformerà in opposizione all’ebraicità dei genitori”. Fino al 1870 il piccolo non potrà rivedere alcun familiare. Allo stesso tempo gli fu negato qualsiasi contatto con l’ambiente ebraico con cui si identificava: la sua deprivazione fu affettiva, ambientale, sociale e religiosa. Il giovane subì “un processo di svuotamento dei suoi rapporti con il passato” e ne uscì sano operando un rovesciamento dai risvolti paradossali: mentre l’Unità d’Italia si compie e gli ebrei si emancipano, Edgardo si identifica con chi l’ha costretto a modificare se stesso con la violenza psicologica, religiosa ed esistenziale. Diventerà un sacerdote attivo nella conversione degli ebrei e cercherà di convertire la sua stessa famiglia. Da adulto Mortara andrà negli Stati Uniti per fondare un movimento pro-conversione. Nuovo paradosso: sarà l’arcivescovo di New York, Michael Corrigan, a fermarlo. “L’alto prelato – ricorda Meghnagi – guardava con perplessità alla vis antiebraica di Mortara né voleva compromettere i buoni rapporti fra ebrei e italiani”. Identificato con il suo sacerdozio, Mortara morirà nel 1940 in un convento nei pressi di Liegi. “Dopo aver sviluppato il culto della Santa Vergine, si ritirerà a studiare e a pregare, nel momento più drammatico per le comunità ebraiche di tutta Europa”. Nel processo attivo con cui la personalità di Edgardo è stata riplasmata, il professore identifica il carattere universale di una storia che nel Ventunesimo secolo può interessare Spielberg: “Ancora oggi sappiamo cosa significhino il lavaggio del cervello e la distruzione dell’identità dei bambini: le conseguenze sono devastanti”. Meghnagi pensa alle persecuzioni nel mondo musulmano contro yazidi e cristiani, “e all’offensiva dello Stato islamico che mina alle radici qualunque idea di convivenza”. Per quanto terribile, quella di Mortara non è una storia unica nel suo genere, ma è tipica delle minoranze nei momenti più bui della storia. Il professore racconta come in Iran o nello Yemen i bambini ebrei rimasti orfani venissero subito fatti sposare. Il matrimonio combinato restava di facciata fino all’età adulta ma li proteggeva dalle conversioni forzate e dai rapimenti. Oggi uno strascico del caso Mortara resta. “Trovo inquietante”, conclude Meghnagi, “come il diritto canonico non abbia mai adeguatamente rivisto le norme relative alla conversione operata di nascosto, anche sulle persone in punto di morte ricoverate negli ospedali”. Secondo la prospettiva ebraica, la salvezza non può essere una facoltà concessa a chi converte, tantomeno quando la “salvezza” è somministrata in maniera surrettizia. “Si tratta di un problema non ancora risolto, nonostante gli enormi progressi compiuti dalla chiesa nel suo cammino di riconciliazione con gli ebrei”.