3 Gennaio 2017

Intervista a Paolo Di Canio

Fonte:

Corriere della Sera

Autore:

Marco Imarisio

«Non sono razzista, voglio urlarlo

I tatuaggi mostrano i miei errori»

Terni «Camerata Paolo, dov’era finito?». «Per favore, preferirei non scherzare. Non cominciamo così, la prego». Il passato torna sempre. Erano quasi quindici anni che Paolo Di Canio non parlava di politica. E ha trascorso gli ultimi quattro mesi in un silenzio assoluto. Da quando una fotografia postata sull’account Facebook di Sky Sport ha mostrato sul suo braccio destro un tatuaggio con la scritta «Dux». «Era ancora estate, indossavo una polo. C’è da girare un video per il web. Se fossi stato in giacca e cravatta non sarebbe successo. Così va la vita». All’improvviso i social network, ma soprattutto alcuni esponenti della comunità ebraica, si ricordano quel che era noto da molto tempo. L’apprezzato conduttore del programma sul calcio inglese che porta il suo nome è la stessa persona che quando giocava nella Lazio faceva il saluto romano, che si definiva fascista. Dopo due giorni, Sky Sport sospende lui e la trasmissione. L’appuntamento è al suo negozio di vestiti al centro di Temi, la città della moglie. Di Canio ci tiene a presentarsi come uomo tutto d’un pezzo. Ma l’ultima bufera di una vita pubblica turbolenta gli ha fatto male. «Non me l’aspettavo. Sono un’altra persona. Non ho fatto nulla, almeno questa volta. A causa di qualcosa ormai lontano nel tempo ho perso un lavoro che facevo con entusiasmo».

Cominciamo dalla fine?

«Il giorno in cui vengo sospeso sono in redazione a Sky. Alle 20 c’era la presentazione del palinsesto, i colleghi la chiamano la sera del tappeto rosso. Io e Leonardo, l’ex calciatore brasiliano, eravamo tra gli ospiti. Vedevo facce strane intorno a me. Vado in albergo per prepararmi. Entro nella hall, suona il telefono».

La sua reazione?

«Ci sono rimasto non male, peggio. Ho urlato. Non so neppure cosa sono i social network. Orgoglio ferito. Mi sono sentito un appestato. Avrei voluto reagire d’istinto».

E invece cosa ha fatto?

«Sono salito di corsa sul primo Frecciarossa per Roma. Non c’era posto. Alla capotreno ho detto che pagavo la tariffa massima e me ne stavo in piedi, pur di tornare a casa. Mi chiedevo cosa avevo fatto per meritarmi una cosa del genere».

Non le bastano quei tatuaggi sul braccio e sulla schiena?

«Il giovane Di Canio le avrebbe risposto in altro modo. Ma ormai ho quasi cinquant’anni. Ho imparato a mettermi dalla parte degli altri, a ragionare con loro. C’è tanta gente che ha ogni diritto a sentirsi ferita dall’esibizione, per quanto non voluta, di quei tatuaggi. E un’azienda importante come Sky ha diritto a non vedersi associata a una simbologia che non condivide. Ma non era stata una mia scelta. E ancora oggi ne pago le conseguenze».

A lei va bene così?

«Non rinnego le mie idee. E la gente cambia. Io sono cambiato, non da ieri».

La data del 6 gennaio 2005 le dice qualcosa?

«Il derby con la Roma. Il saluto romano sotto la curva Nord. È la cosa di cui mi più mi pento nella mia carriera. Quello è un ambito sportivo, è stupido fare un gesto politico che magari può essere condiviso da alcuni spettatori e amareggiarne molti altri. Non avrei mai dovuto farlo. Lo sport deve restare fuori da certe cose».

Dopo quell’episodio lo ha rifatto anche a Siena, Livorno, Torino.

«Per provocare. Per rabbia. Era scoppiato il casino. Mi tiravano sassi dagli spalti. Sputi, cori con insulti terrificanti ai miei genitori. Le ho detto che sono pentito, non che nella mia vita sono stato un santo».

Lei è fascista?

«Preferirei evitare le etichette. Ho sempre spiegato come la penso, non è un mistero. Ma se mi chiede delle leggi razziali, dell’antisemitismo, dell’appoggio al nazismo, quelle sono cose che mi fanno ribrezzo».

Lo sa che negli archivi ci sono un paio di sue interviste dove si definisce fascista?

«Può essere. Ma sempre con queste distinzioni. E oggi mi rendo conto che per le persone che hanno subito certe cose sulla loro pelle, non può bastare. Ho creduto in una destra sociale, ho seguito le varie svolte da Fiuggi in poi. Non ho mai preso una tessera. Sono 17 anni che non voto».

E comunque Mussolini resta pur sempre una gran brava persona?

«C’è un prima e un dopo. Alcune cose le aveva fatte bene. Quando segue Hitler sulle leggi razziali finisce tutto».

Giacomo Matteotti, chi era costui?

«La vittima di un esecrabile omicidio politico. I regimi sono spesso nati in questo modo, da tutte le parti e tutti i colori. Ed è questo che li offusca e priva di ogni ragion d’essere».

Quando si è fatto quel tatuaggio?

«Nel 2000, a Bologna. Giocavo in Inghilterra, ero convalescente da un infortunio. Per me Mussolini rappresentava un’idea di società con regole, vere, che tutti rispettano. L’amore e l’orgoglio patrio. Cose che vorrei per il mio Paese e non vedo neppure oggi».

La sua era una famiglia di destra?

«Per carità. I miei tre fratelli votano a sinistra. Mio padre Ignazio era un muratore romano. I nazisti gli spararono addosso. Aveva rubato del formaggio, voleva portare a casa qualcosa da mangiare. Quando ci fu il bombardamento di San Lorenzo, andò in giro con un carretto per dare il poco che aveva alle persone rimaste senza tetto».

Come è successo che lei…?

«Sono nato e cresciuto al Quarticciolo, un quartiere da sempre rosso e romanista. Nel mio gruppo c’erano cinquanta tifosi della Roma e 4-5 laziali. Mi è sempre piaciuto essere minoranza. Anni Ottanta, ci si divideva anche per il modo di vestire. Le Clark e la kefiah erano di sinistra, il giubbotto di pelle Scott e gli stivali di destra».

Solo una questione estetica?

«Ambientale, piuttosto. Ammiravo Giorgio Almirante e la sua capacità oratoria. Nel 1987, quando giocavo nelle giovanili della Lazio, cominciai a frequentare in curva il gruppo degli Irriducibili, che aveva preso una certa impronta politica».

Lanciavano già banane contro i giocatori di colore?

«Cominciarono dopo. Quando non ero più alla Lazio. Trevor Sinclair, quel genio di Shaka Hislop, che terminata la carriera di portiere è diventato ingegnere nucleare, Chris Powell. Compagni di squadra. Amici ancora oggi. Ragazzi di colore. Phil Spencer, il mio agente inglese, è un ebreo praticante. Sono stato al Bar Mitzvah del figlio. Io questa cosa del razzismo non ce l’ho dentro, non mi appartiene, vorrei gridarlo».

Perché a novembre ha sentito il bisogno di scrivere una lettera all’Unione delle comunità ebraiche italiane?

«Sono a casa. Pensieri cupi, tristezza. Mia moglie mi dice che Ludovica, la nostra primogenita che studia a Londra, fa finta di niente perché mi vuole bene, ma soffre come una bestia. Mi chiedo cosa posso fare, a chi posso spiegare una volta per tutte il mio pensiero. La comunità ebraica è stata la più toccata da quella involontaria apparizione. Sono persone davanti alle quali posso solo chinare il capo. Ho preso carta e penna».

Si aspettava una risposta più calorosa da parte della presidente Noemi Di Segni?

«Assolutamente no. Mi ha scritto di fare attenzione alle parole e ai simboli, aggiungendo che a una grande visibilità mediatica deve corrispondere un senso di responsabilità ancora maggiore. Condivido dalla prima all’ultima parola».

E da questa intervista?

«Spero che mi venga data una possibilità. Far capire chi sono davvero, pregi e difetti, comunque ormai lontano da quelle foto con il braccio teso. Penso per primi ai reduci dai campi di concentramento che una volta ho incontrato in Campidoglio. E poi ai giovani che portano avanti le loro idee. Devono esserne fieri, purché rispettino quelle degli altri».

Qualcuno potrebbe risponderle che un fascista è per sempre.

«Non posso convincere tutti. Certe etichette non me le toglierò mai, ne sono consapevole. Ma giro a testa alta. Le mie figlie sanno chi sono».

Ha mai pensato di togliersi quel tatuaggi?

«No. Sarebbe una ipocrisia. Una amica di sinistra mi ha detto che per me sono ormai legati a un’idea romantica e idealista della giovinezza. Forse non è neppure così Quel che mi porto addosso è il simbolo di ciò che sono stato, di quel che ho fatto. Compresi gli errori».