19 Febbraio 2015

Comunità ebraiche italiane e l’appello di Netanyahu all’ aliyha

Fonte:

il Manifesto

Autore:

Eleonora Martini

Ebrei: «Senza paura, insieme agli italiani»

Il riconoscimento italiano allo stato palestinese? «Ancora una volta si vuole credere che gli ebrei siano in qualche modo responsabili di ciò che avviene nel mondo»

Il terrorismo, le minacce dello Stato islamico, l’antisemitismo montante in tutta Europa, e poi l’appello di Bibi Netanyahu a fare l’aliyha. Per gli ebrei del vecchio continente è un altro periodo di paura e di tensione, e non sono pochi coloro che, soprattutto in Francia. Danimarca o Belgio, decidono che sì, è arrivato il momento di fare le valigie e di rifugiarsi almeno per un po’ in terra di Israele. Non così in Italia, dove la sensazione di sicurezza è maggiore anche perché proprio in queste ore le autorità di polizia hanno aumentato il livello di allerta e rafforzato le scorte di guardia agli obiettivi sensibili. Ma dove, soprattutto, l’essere ebreo quasi sempre è sentito come un elemento di identità secondario rispetto alla cultura e al contesto sociale di appartenenza Epperò, proprio per questo, la decisione del parlamento italiano di mettere ai voti le mozioni per il riconoscimento dello stato di Palestina suona quasi sempre, nelle varie comunità ebraiche italiane, come un inopportuno tentativo di attribuire un nesso diretto tra il conflitto israelo-palestinese e il montare del terrorismo islamico. «Il problema palestinese esiste e va risolto, ma non ha nulla a che vedere con quello che sta accadendo nel mondo. I palestinesi sono un pretesto, un vessillo usato dai terroristi islamici che in realtà hanno un solo nemico: la democrazia occidentale e tutti noi, a prescindere dal credo religioso o da qualsiasi supposto torto». Walker Meghnagi, presidente della comunità ebraica di Milano, esprime il concetto molto chiaramente, ma da nord a sud dell’Italia le stesse parole risuonano nei discorsi di tanti ebrei. Per Alessandro Salonichio, per esempio, a capo della comunità triestina, «l’iniziativa della Camera ha un carattere unilaterale che non contribuisce a sviluppare iniziative diplomatiche di mediazione con l’obiettivo di due stati per due popoli, e rischia invece di surriscaldare inutilmente gli animi». «Mi piacerebbe che questo embrione di stato che l’Italia si appresta a riconoscere – aggiunge con tono più polemico Vittorio Mosseri, portavoce degli ebrei di Livorno – riconoscesse a sua volta il diritto di Israele a vivere». Per Riccardo Pacifici, che è la voce degli ebrei romani, la più popolosa delle comunità italiane, «è un segnale di indirizzo che non cambia nulla sul campo». «Nessuno di noi si sottrae all’idea di vedere una volta per tutte la nascita dello stato palestinese – aggiunge Pacifici che comunque attende di conoscere il testo delle mozioni al voto – ma ad un patto: che non sia uno stato che nasce in sostituzione dello stato di Israele,come vorrebbe Hamas e come perfino Abu Mazen lascia intendere». Non si esprime invece Renzo Gattegna, almeno fino a voto compiuto. Il presidente dell’Unione delle comunità ebraiche però giusto qualche tempo fa aveva già giudicato ogni «iniziativa unilaterale non preventivamente concordata in sede Onu» come una forzatura che rischia di «indebolire» il negoziato diretto tra Israele e l’Autorità nazionale palestinese. Scende più a fondo, Saul Meghnagi, direttore scientifico dell’Associazione Hans Jonas: «Che in questo momento si pensi a collegare il riconoscimento dello stato di Palestina con quanto sta accadendo nel mondo è almeno inopportuno, perché si rischia di attribuire di nuovo agli ebrei una responsabilità degli avvenimenti mondiali». Meghnagi ricorda «un bellissimo articolo di Rossana Rossanda sul manifesto degli anni ’80 intitolato “Davide discolpati” in cui si ammoniva a non chiedere continuamente agli ebrei una giustificazione su Israele. Stessa cosa che oggi si fa con i musulmani. Ecco, io credo che questa è un po’ l’arroganza dell’occidente, una delle sue malattie più terrificanti e con la quale oggi dovrebbe fare i conti». Racconta Saul Meghnagi che Hans Jonas, da cui prende il nome la sua associazione, «davanti ad Auschwitz e alla madre trucidata si pose l’interrogativo, che noi abbiamo fatto nostro, di quale fosse l’origine culturale che aveva portato l’occidente a compiere quell’orrore. Credo che anche oggi – aggiunge – bisogna domandarsi quanto di ciò che sta accadendo sia ascrivibile all’occidente e quanto all’Islam stesso. Si pensi al paradosso per cui gli ebrei oggi sono di fatto oggetto di un odio particolare proprio nello stesso frangente in cui viene attaccato quell’occidente che è responsabile della Shoa e che non ha ancora fatto sufficientemente i conti con ciò che è avvenuto». «Io personalmente – continua ancora Meghnagi – sono da tempo impegnato nella costruzione di un processo che porti allo stato palestinese. Ma c’è un tempo per ogni cosa: credo che oggi sia il tempo di porre domande all’occidente sulle forme di relazione con il sud e l’est del mondo, e con le minoranze che abitano al suo interno e che saranno sempre più variegate». Ed è proprio in questo mondo multiculturale che da sempre vivono per vocazione gli ebrei. «Dai pogrom alla fine dell’800 all’affaire Dreyfus fino alla Shoa, tante volte si è pensato che il rapporto tra ebrei e le società in cui vivono fosse impossibile – conclude Meghnagi – Ma costantemente gli ebrei hanno lavorato per un’idea di cittadinanza inclusiva di tutte le diversità». Ecco perché, pur aumentando l’incertezza e in alcuni casi perfino la paura, l’appello di Netanyahuin piena campagna elettorale – a fare l’aliyha, anche se è «un atto dovuto», come dicono un po’ tutti gli intervistati, e «in linea con quanto da sempre ripetono i leader israeliani al popolo ebraico del mondo», come ricorda Riccardo Pacifici, è stato accolto molto tiepidamente dagli ebrei italiani. «Noi siamo soprattutto romani, milanesi, torinesi, triestini, livornesi», ripetono i presidenti delle varie comunità ebraiche. Tutti loro hanno raccolto gli sfoghi di quanti sentono montare la paura, malgrado gli ebrei siano già abituati ad una vita di controlli, con la polizia davanti alle sinagoghe, e gli agenti all’ingresso delle scuole dove portano i bambini. Ma l’Italia non è la Francia: «Ho appena ricevuto la telefonata del capo della polizia, Alessandro Pansa, che mi ha comunicato di aver innalzato ulteriormente il livello di controlli per quelli come me sotto scorta e per gli obiettivi sensibili – racconta Pacifici – Purtroppo non ho visto lo stesso in Francia, se non dopo l’attentato». Stessa cosa a Milano, dove, riferisce Walker Meghnagi, «abbiamo un rapporto stupendo con la città, con tutti gli enti e le istituzioni, e con i rappresentanti delle altre religioni, a partire dai musulmani, figli del nostro stesso Dio». Ecco perché anche Renzo Gattegna respinge cordialmente l’invito di Netanyahu: «Se gli ebrei emigrassero in massa in Israele spinti dalla paura e dalla sensazione di non essere tutelati come cittadini, sarebbe una doppia sconfitta sia per gli ebrei che per l’Italia e per l’Europa – dice il presidente dell’Ucei – Vorrebbe dire che l’Europa non è in grado di difendere i diritti fondamentali sanciti nelle carte costituzionali di tutti gli Stati. Vorrebbe dire che gli ebrei non godrebbero degli stessi diritti degli altri cittadini, tra i quali è prevista la libertà di espatriare e di emigrare ma non certamente la costrizione a farlo». In un mondo sempre più globalizzato, ricordano Gattegna e Pacifici, «Israele rappresenta un arricchimento soprattutto per le giovani generazioni e non l’ultimo rifugio contro chi propone modelli culturali e ideologici non conformi con le nostre società democratiche e progredite».