21 Ottobre 2016

Commento del professor Dario Calimani ad alcune forme di banalizzazione della storia

Fonte:

Corriere della Sera - Sette

Autore:

Stefano Jesurum

Tragedie di ieri e di oggi? Non fate analogie Lo sostiene il prof. Dario Calimani che scrive: «Quando tutto è Shoah nessuno si preoccupa più di capire che cosa sia stata davvero la Shoah»

Da anglista di vaglia qual è, Dario Calimani, docente a Ca’ Foscari, autore di una nuova e dibattuta traduzione de II mercante di Venezia (Marsilio, 2o16), dà ovviamente un enorme peso alle parole, ai significati e alle letture più o meno simboliche delle stesse. E in un momento in cui la storia sembra avere perso ancora una volta la bussola ci ammonisce a non smarrire quella bussola anche noi e a non farci sovrastare dalla retorica. Ammonimento che Calimani ha voluto affidare a Ponti&Muri attraverso questa lettera che volentieri pubblichiamo. «Gentile Jesurum, a proposito di ponti e muri, mi chiedo spesso quanto siano opportune le analogie fra noi e gli altri, fra il presente e il passato, fra la realtà e la finzione. Ci stiamo abituando a sentir dire che ogni massacro è una Shoah, che ogni crimine in giro per il mondo è nazismo, che ogni annegamento di migranti è un genocidio. La ricerca di analogie fra le tragedie del presente e quelle del passato sono forse una spia della nostra incapacità di guardare in faccia la realtà com’è. Tutto è relazione. Eppure, l’annegamento di un migrante è una tragedia anche se non si cercano paragoni o metafore; anzi, la metafora lo spersonalizza, ne banalizza la storia e la appiattisce. Quando tutto è Shoah nessuno si preoccupa più di capire che cosa sia stata davvero la Shoah, le sue cause, le sue specificità, le sue conseguenze. «Recentemente, in occasione del suo cinquecentenario, qualche studioso ha sentito necessario precisare che il Ghetto di Venezia non era il Ghetto di Varsavia, né Treblinka. Si spiegano le cose per analogia o per differenza, evitando di esaminarle nel dettaglio, senza conoscerle in sé. L’operazione successiva è estrapolare alcuni casi di ebrei benestanti o intelligenti, e si finisce poi per presentare la vita nel Ghetto come una passeggiata su un prato fiorito. Ma il Ghetto è stato un ponte ben meno di quanto non sia stato un torreggiante muro di segregazione per dodici generazioni di persone. Lo stesso si fa correntemente con la letteratura, quando si eleva lo Shylock shakespeariano a simbolo della diversità, angariata ed emarginata. La lettura simbolica scalza quella letterale, e il personaggio perde la sua individualità, omogeneizzato nella generalizzazione. In tutti questi casi, la metafora o il simbolo deformano il messaggio e il senso origina, mentre la lettera della storia, o del testo, rimane annullata. Della storia del singolo individuo non interessa più nulla a nessuno. Si vive di retorica».